“Una volta stavo commentando i Purana e altre opere che stavo leggendo con tre amici e discutevo su come conseguire la realizzazione.
Uno di loro disse che bisogna contare solo su se stessi e non su un Guru (maestro), perché la Bhagavad Gita dice: ‘Te stesso’.”
Il secondo disse che la cosa principale è controllare la mente e tenerla libera da pensieri e dubbi.
Il terzo disse che le forme cambiano costantemente e soltanto il Senza Forma è immutabile, così dobbiamo costantemente distinguere tra l’Eterno e il transitorio.
Il quarto non apprezzava la teoria e disse: ‘Compiamo semplicemente il nostro dovere e abbandoniamo la nostra vita, il nostro corpo e la nostra parola ad un Guru che sia onnipervadente. La fede in lui è tutto ciò di cui abbiamo bisogno’.
Mentre ci aggiravamo nella foresta, incontrammo un uomo che ci chiese dove stessimo andando nella calura del giorno e ci avvisò che ci saremmo persi. Ci invitò a sostare e a condividere il suo cibo, ma noi rifiutammo la sua offerta e il suo consiglio e continuammo il nostro cammino. In effetti perdemmo la strada in quella vasta e fitta foresta.
Incontrammo una seconda volta l’uomo che ci confermò che ci eravamo persi perché avevamo fatto affidamento solo sulla nostra abilità e ripeté che avevamo bisogno di una guida. Ancora ci invitò ad accettare il suo cibo e ci disse che quell’offerta era propizia e che non avremmo dovuto rifiutarla. Comunque, ancora una volta declinammo il suo invito e continuammo nel nostro cammino. Soltanto io mi sentii affamato, ritornai da lui, accettai un pezzo di pane e bevvi un po’ d’acqua.
Poi il Guru apparve di nuovo, chiese su cosa stavamo discutendo e io gli raccontai tutto. Gli altri lo lasciarono senza mostrare alcun rispetto per lui, ma io mi inchinai con reverenza. Allora egli mi portò ad un pozzo, mi legò le gambe con una corda e mi appese a testa in giù da un albero che cresceva lì vicino. La mia testa era a circa un metro dall’acqua, quindi non potevo raggiungerla. Il mio Guru mi lasciò là e se ne andò, non so dove. Ritornò quattro o cinque ore più tardi e mi chiese come mi sentivo. Risposi che avevo passato il tempo in una grande beatitudine ed egli ne fu deliziato e mi abbracciò, accarezzandomi amorevolmente il capo.
Poi mi parlò con grande amore e fece di me il suo discepolo. Da allora dimenticai completamente mia madre e mio padre e tutti i miei desideri. Amavo guardarlo. Non avevo occhi che per lui. Non volevo più tornare indietro. Dimenticai ogni altra cosa al di fuori del mio Maestro. La mia intera vita e la mia vista erano concentrate su di lui. Egli era il solo oggetto della mia meditazione. In silenzio mi inchinai…”
Questo era un racconto tipico di Sai Baba di Shirdi, perché l’intera storia è simbolica.
La foresta è la giungla della mente in cui avviene la ricerca della Verità e i quattro amici sono i quattro diversi modi di approccio. L’uomo è il Guru e il cibo che offre la sua Grazia.
“Il Guru apparve” significa che, dopo che il giovane aveva accettato il cibo (ovvero la Grazia), scoprì che chi glielo aveva donato in realtà era un Maestro Divino. Allora egli si inchinò con reverenza, ovvero accettò la sua autorità.
Essere legato a testa in giù, sospeso su un pozzo, significa il capovolgimento dell’ego, il vincolarlo e tenerlo in vista delle fresche acque della Pace (purtroppo a volte questa disciplina è stata veramente abusata da qualche maestro).
È per questa ragione che la prova si rivela beatifica: è sofferenza beatificata dal fine per il quale viene sopportata.
Questo assorbimento nel Guru è la sadhana, o sentiero, e “in silenzio mi inchinai” è l’estinzione dell’ego nella Realizzazione del Sé.
Estratto dal libro L’incredibile Sai Baba di Shirdi di Arthur Osborne.