Dnyaneshwara (detto anche Gnyaneshwara o Dnyanadeva) è un grande santo vissuto in India ad Alandi (che è vicino Pune, nel Maharashtra) fra il 1275 al 1296. I termini Gnyana, o Dnyana significano ‘conoscenza’; mentre deva o shwara significano ‘signore’.

A quei tempi la vita dei sanyasi era divisa in quattro fasi chiamate Ashramas. La prima fase era riservata all’educazione scolastica. La seconda era il periodo della famiglia. Dopodiché c’è Sanyasashram, la fase in cui un uomo lasciava la sua famiglia e viveva nella foresta perseguendo meditazione e santità.
Vithalpant, un bramino di Alandi, intraprese il Sanyasashram senza consultare sua moglie. Quando il suo Guru lo scoprì, gli ordinò di ritornare dalla sua famiglia. Questo ritorno alla famiglia era considerato dai bramini ortodossi un insulto ad entrambi gli Ashramas. Perciò da quel momento in poi fu considerato come un fuori-casta, il livello più basso della società indiana.


In seguito, Vithalpant ebbe tre figli (Nivrutti, Dnyanadev, Sopan) e una figlia (Mukta). Tutta la famiglia dovette soffrire una grande umiliazione da parte della società ortodossa. (A questo punto comincia il film – in lingua indiana con i sottotitoli in inglese)

Ad un certo punto, Vithalpant e la moglie non poterono più sopportare quell’umilizione, soprattutto nei riguardi dei loro amati figli; per cui si rivolsero all’assemblea dei bramini per cercare una via di espiazione per quella colpa. I bramini si consultarono a vicenda e consultarono i loro testi sacri ma non trovarono nessuna soluzione se non il passaggio ad un’altra vita, ovvero la loro morte.
Con il cuore affranto dalla triste notizia, i genitori decisero di sacrificare le loro vite per il bene dei loro figli. Fu così che il quattro fratelli divennero orfani.

A quel punto, i quattro bambini – consci del sacrificio che i loro genitori avevano fatto aiutarli a rifarsi una vita normale e dignitosa – cercarono la benevolenza dei bramini. Questi a loro volta li invitarono ad andare nella grande città per cercare il benestare della commissione dei bramini superiori per poter ritornare ad una vita normale, e infine l’ottennero.
Ma il loro ritorno a casa non fu così festoso come si aspettavano. Ormai scorati, trovarono la benevolenza di un contadino che accolse gli orfanelli nella sua famiglia.

Dnyaneshwara fu molto apprezzato dal popolo perché fece una cosa molto importante. Fino ad allora tutte le letture sacre erano in sanscrito e quindi riservate solo agli scolari, in quanto il popolo comune non conosceva quella lingua. Quello che fece Dnyaneshwara fu tradurre la ben nota Gita (la Bhagavad Gita) in Marathi così che tutti potessero comprenderla. Invero fece di più, perché aggiunse dei commentari alla Gita (opera nota come Dnyaneshwari), per permettere a tutti di comprenderla.

Oltre ai commentari Dnyanadeva scrisse l’Amrita Nubhava, opera di pura poesia, lode del Divino e descrizione dei Suoi aspetti. È interessante notare dalla video come a quei tempi si usavano tramandare i testi oralmente.

Dnyaneshwara fu riconosciuto dal popolo come santo e andò in Samadhi (ovvero ha lasciato le sue spoglie mortali) all’età di 21 anni. La Sua missione era compiuta.

L’importanza di Dnyanadeva per noi yogis non è solo dovuta al fatto che scrisse dei commentari alla Gita; Egli era in effetti un’incarnazione divina, quella di Shri Kartikeya, il principio sottile del Mooladhara destro (vedi Il Mooladhara chakra: simboli e tradizioni).
Dalla Sua vita si deducono le qualità fondamentali di questo principio: la piena dedizione, la benevolenza e la castità.

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1 commento

  1. […] Gyaneshwara, un altro famoso santo del Maharashtra nato intorno al 1275 DC, descrisse la Kundalini nel 6° capitolo del suo famoso libro Gyaneshwari. Egli ha scritto: ‘La Kundalini è una delle più grandi energie. L’intero corpo del ricercatore inizia a brillare grazie al salire della Kundalini. Grazie a questo, le impurezze indesiderate nel corpo scompaiono. Il corpo del ricercatore improvvisamente appare molto proporzionato e gli occhi appaiono luminosi e attraenti’. (Gyaneshwari, capitolo VI). […]

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